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Artrite reumatoide, gli antidolorifici non bastano

artrosi e artrite reumatoide

Ridurre il dolore, bloccare il processo di distruzione delle articolazioni, tenere sotto controllo le patologie collegate e recuperare le funzioni motorie. Sono i quattro obiettivi che deve avere una terapia per la cura dell’artrite reumatoide, una malattia reumatica infiammatoria cronica che porta all’erosione delle articolazioni. Questa patologia in Italia ha un’incidenza dello 0,4% e il quadro della sua diffusione è uniforme. Le più colpite sono le donne. La fascia di popolazione in cui si riscontrano più casi è, invece, quella che va dai 35 ai 60 anni.
«Per alleviare il dolore, bisogna controllare il processo infiammatorio e per questo si usano gli anti-dolorifici, che però hanno una potenziale tossicità e vanno monitorati soprattutto negli anziani. Con questo genere di farmaci si riesce a ridurre la sensazione di avere le articolazioni intorpidite con cui si svegliano al mattino», spiega Raffaele Scarpa, direttore dell’unità operativa di reumatologia della Federico II di Napoli. Terapie del genere – continua il professor Scarpa – «sono indicate per le forme lievi, mentre quelle moderatamente aggressive hanno bisogno di combinazioni di farmaci sintetici e biotecnologici, che riducono la portata dell’infiammazione e le distruzioni articolari».

Malattie associate

Ma all’artrite reumatoide si accompagnano altri problemi, infatti, come sottolinea Scarpa: «Questi pazienti sono più soggetti ad avere l’osteoporosi secondaria e patologie cardiovascolari, per questo bisogna monitorare il metabolismo osseo. Poi si deve dare spazio alla terapia fisica, anche preventivamente, in modo da poter riprendere la funzione delle articolazioni».
Importante nella cura dell’artrite reumatoide è anche arrivare per tempo perché, come chiarisce Giovanni Lapadula, professore ordinario di reumatologia all’università di Bari: «Complessivamente la patologia non è adeguatamente trattata, perché manca un riconoscimento precoce della malattia. In questo, esiste un difetto organizzativo nel sistema sanitario nazionale che non è uniforme in tutte le regioni. Al Sud vediamo persone con danni articolari già avanzati e questo inficia fortemente le possibilità terapeutiche, perché un paziente con artrite può neutralizzare la malattia se inizia a curarsi nei primi 3-6 mesi di malattia».
L’artrite reumatoide non è complessa solo da riconoscere, ma anche da trattare, infatti, nel corso della vita i pazienti devono cambiare le terapie più volte, perché il loro organismo smette di rispondere. Questo discorso riguarda anche i farmaci biotecnologici, che si usano dal 1999.

Immuno soppressori

«Con i biotecnologici si iniettano nell’organismo del malato degli anticorpi, spesso dei recettori, che sono in grado di arrestare l’effetto di alcune sostanze che inducono l’infiammazione. Questi colpiscono esattamente il bersaglio, a differenza dei farmaci di sintesi che, invece, agiscono su molti punti e possono determinare più effetti collaterali. Il problema è che si tratta di materiale proteico e ci possono essere reazioni allergiche e lo sviluppo di anticorpi contro il farmaco. Così si inibisce la sua attività. Questo significa che questi farmaci in un paio d’anni perdono efficacia», spiega Lapadula.
In questi casi c’è quindi necessità di integrare la terapia con degli immuno soppressori, che però non sono molto tollerati dai pazienti, perché – aggiunge Lapadula – «Spesso creano dei disturbi come la soppressione addominale. Sorge allora il problema dell’aderenza alla terapia: i pazienti tendono ad autogestirsi». Come fare in questi casi? Risponde Lapadula: «Da un lato, ci sono farmaci che possono essere somministrati in monoterapia, cioè da soli, ed hanno un’alta efficacia nelle fasi iniziali. Inoltre riescono a ridurre il problema dell’anemia post-infiammatoria. Anche in questo caso, possono avere degli effetti collaterali sul fegato e sui globuli bianchi, ma non creano gravi problemi di salute. Dall’altra parte, però, anche il medico deve motivare il paziente e creare una relazione di fiducia, in questo può essere sicuramente aiutato da infermieri e psicologi».

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