Alimentazione

La buona cucina italiana, ma metà delle materie prime viene dall’estero

WORLD PASTA DAY: il Made in Italy che fa bene alla salute
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Carni, latte, frumento e pesce: il nostro Paese fa arrivare ogni anno dall’estero prodotti agroalimentari per un bilancio totale di 42 miliardi di euro. Si tratta di materie prime, alla base di molti marchi dell’industria alimentare nostrana, d’altronde il Made in Italy fonda le sue radici proprio nella lavorazione.

Ma cosa succede se alcuni cibi sono contaminati da sostanze chimiche che da noi sono vietate? La cartina dell’importazione tracciata da Coldiretti mostra da dove vengono queste materie prime. Il primo dato che colpisce riguarda un ingrediente alla base della dieta mediterranea. Circa la metà del grano duro fa un viaggio transatlantico dal Canada per giungere fino al Belpaese, qualche migliaio di chilometri in meno se arriva dall’Ucraina. Da più vicino, invece, arriva la carne bovina refrigerata (Francia o Polonia) e il latte (Germania e Slovenia).
Insomma, la produzione interna non basta per coprire il fabbisogno del Paese. Giusto per rendere un’idea: le aziende italiane spendono 460 milioni di euro all’anno per assicurarsi il caffè grezzo in Brasile; 170 milioni di euro per le mandorle statunitensi e 67 milioni per i crostacei e i molluschi cinesi.

Il prodotto più importato in assoluto è la carne: il 70% delle proteine ovicaprine (pecore e capre) proviene da oltre confine. Quelle bovine (manzo e vitello) si fermano al 40%. Stesso discorso vale per il 35% dei salumi e della carne suina, nonostante la tradizione di insaccati italiani e per la pasta: composta per il 50% di grano duro estero (il grano tenero destinato ai panifici si ferma al 30%). Così come per latte, formaggi e yogurt. Il Mediterraneo che circonda la nostra Penisola non basta neanche per il pesce. Le nostre aziende spendono oltre quattro miliardi all’anno per pesce, crostacei e molluschi. C’è un’unica produzione che non teme scarsità: quella degli ortaggi che è italiana al 99%. Dietro questo andamento che ha cifre stabili da ormai 4 anni, non c’è solo l’abbattimento dei costi, specie del lavoro. In realtà entrano in gioco tecniche di coltivazione diverse: «Soprattutto nei Paesi extraeuropei si utilizzano fitofarmaci che qui da noi sono fuori legge», spiega sulle pagine de La Stampa, il biologo Luciano Atzori. Un esempio è la matrina: «Si tratta di un diserbante molto utilizzato in Cina che si estrae da una radice. Per cui si ottiene a basso costo e passa pure come sostanza naturale. Ma i rischi per la salute sono enormi», rivela Atzori. La sostanza, infatti, prodotta maggiormente in Cina e India, non è commerciabile in Europa perché ritenuta neurotossica, allo stesso modo dei più pericolosi e dannosi fitofarmaci quali i carbammati, i fosforganici e i cloro derivati come il Ddt. La sostanza agisce inibendo l’attività della colinesterasi e provocando la sindrome da avvelenamento con tremori, scordinamento dei movimenti, scarso equilibrio, disturbi intestinali e la morte per blocco della respirazione. Oltre a questi sintomi acuti i composti neurotossici possono determinare fenomeni di bio- accumulo nei tessuti lipidici provocando nel tempo fenomeni di tossicità cronica. Insomma “naturale” non è sinonimo di “sano” o di “sicuro”. Molti veleni sono naturali, come appunto la Matrina, di origine vegetale sì, ma altamente tossica per l’uomo, per l’ambiente e per gli animali, che a volte è stata venduta come fertilizzante naturale agli agricoltori. Una vera e propria frode scoperta qualche anno fa a seguito dell’operazione Mela Stregata che ha visto tra le sue vittime soprattutto il settore biologico, con i suoi produttori ingannati dal paradosso del “naturale”. Il caso scoppiò a seguito di una segnalazione di FederBio, da Icqrf (Ispettorato Centro della tutela della Qualità e Repressione Frodi agro- alimentari) e Guardia di Finanza.

Nella black list di Coldiretti sui Paesi che importano prodotti con più residui tossici, in cima alla classifica c’è la Cina. Solo nel 2016 sono aumentate del 43% le importazioni di concentrato di pomodoro dal Paese asiatico che hanno raggiunto circa 100 milioni di chili, pari a circa il 10% della produzione nazionale in pomodoro fresco equivalente. Se nella maggioranza dei broccoli cinesi è stata trovata la presenza in eccesso di Acetamiprid, Chlorfenapyr, Carbendazim, Flusilazole e Pyridaben, nel prezzemolo vietnamita – sottolinea la Coldiretti – i problemi derivano da sostanze come Chlorpyrifos, Profenofos, Hexaconazole, Phentoate, Flubendiamide mentre il basilico indiano contiene Carbendazim che è vietato in Italia perché ritenuto cancerogeno. Nella classifica dei prodotti più contaminati che provengono dall’estero ci sono anche le melagrane dall’Egitto che superano i limiti in un caso su tre (33%), ma fuori norma dal Paese africano sono anche l’11% delle fragole e il 5% delle arance.

Secondo gli economisti, una delle ragioni che obbliga l’Italia a una forte importazione dall’estero riguarda la regolamentazione. In primis quella europea. Il mercato unico si reggerebbe ancora su dei limiti di produzione che avvantaggiano alcuni dei nostri partner europei a discapito dell’Italia. Gli strumenti per migliorare il saldo fra produzione e importazione non mancano. Come ad esempio nel caso dei contratti di filiera: accordi fra produttori e aziende per cui si coordinano colture agricole e necessità industriali al fine di non sprecare risorse e favorire le produzioni locali. Una soluzione che potrebbe anche migliorare i già alti standard di sicurezza alimentari italiani.

 

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