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Cancro. Solo il 60% di chi è guarito riesce a riavere posto di lavoro

Cancro. Solo il 60% di chi è guarito riesce a riavere posto di lavoro

Solo il 60% di chi è stato malato di tumore riesce a tornare al proprio posto di lavoro dopo le cure. Il reinserimento è più difficile per le donne e i soggetti più fragili.
A impedire di riprendere del tutto la vita lavorativa, ci sono molti fattori. Uno studio presentato al congresso europeo di oncologia (ESMO) in corso a Madrid ha cercato di analizzare questi ‘impedimenti’ in un contesto piuttosto privilegiato rispetto a molte altre realtà, la Norvegia. Elisabetta Iannelli, Segretario Generale di Favo, ha invece raccontato la dimensione italiana.

Nello studio, il NOR-CAYACS ha indagato la capacità lavorativa di 1.198 persone alle quali, nel periodo 1985-2009 (Cancer Registry Norway), era stato diagnosticato un tumore (melanoma, tumore del colon retto, tumore della mammella stadio I-III, linfoma non Hodgkin o leucemie) all’età di 19-39 anni e vivi nel settembre 2015 (l’età media al momento della survey era di 49 anni).

Dai risultati è emerso che solo il 60% degli intervistati aveva un posto di lavoro a tempo pieno, ad una distanza media di 13 anni dalla fine del trattamento oncologico. L’identikit di chi aveva totalizzato un basso punteggio di Work Ability Index era: donna, con basso grado di istruzione, depressa, con fatigue, lindema, ridotta qualità di vita fisica e scarso stato di salute autoriferito. I sopravvissuti ad un linfoma non Hodgin erano quelli con il minor punteggio di capacità lavorativa, mentre i soggetti con melanoma si collocavano all’estremo opposto.

“L’80% circa dei giovani affetti da tumore possono oggi essere curati – afferma il professor Gilles Vassal, direttore della Ricerca Clinica, Gustave Roussy, Villejuif (Francia) e Past President della European Society for Paediatric Oncology (SIOPE) – ma le cure sono intensive e due survivor su tre presentano conseguenze fisiche e psicologiche di lunga durata. Questo studio dimostra che sono proprio gli effetti somatici e psicologici delle terapie a ridurre la capacità lavorativa, più del cancro in sé. ”.

Gli effetti indesiderati dei trattamenti insomma possono comparire anche a distanza di mesi o anni dal termine della terapia, e se una persona si è ammalata di cancro in età giovanile, possono interferire con la carriera lavorativa. “Per questo i giovani che si ammalano di tumore – conclude Vassal – dovrebbero ricevere informazioni chiare sui potenziali effetti tossici dei trattamenti oltre che essere sottoposti ad attento monitoraggio per minimizzare la gravità delle conseguenze a lungo termine. Sono inoltre necessari degli studi clinici prospettici volti ad individuare trattamenti che riducano il rischio di tossicità tardive, senza al contempo mettere in predicato le probabilità di superare la malattia”.

Elisabetta Iannelli, Segretario Generale FAVO ha commentato: “Studi come quello norvegese presentato all’Esmo 2017 non fanno che confermare ciò che i pazienti, con il sostegno del volontariato oncologico, affermano da tempo: chi ha ricevuto una diagnosi di cancro, soprattutto se ne è totalmente guarito, può e vuole continuare a lavorare poiché il lavoro è terapeutico ed è fondamentale per il pieno ritorno alla vita dopo la malattia”.

“Perdere il posto di lavoro o essere licenziati, subire discriminazioni o demansionamenti in conseguenza del cancro – prosegue Iannelli – sono traumi dolorosi e lesivi della dignità della persona, oltreché profondamente ingiusti e, pertanto, inaccettabili. Lo studio Norvegese conferma che più della metà degli ex malati a distanza di oltre un decennio dalla diagnosi continua a lavorare a tempo pieno ma ci dice anche che i soggetti più fragili che, purtroppo, sono in prevalenza donne, sono a maggior rischio di esclusione sociale e di povertà (come confermato da alcuni studi sulla tossicità finanziaria). E’ ormai noto che effetti a lungo termine o tardivi connessi e conseguenti al cancro ed alle terapie antineoplastiche, costituiscono un rischio aggiuntivo di salute e possono essere un ostacolo invalidante anche sul lavoro, se non vengono poste in essere azioni concrete per rimuovere queste barriere culturali e sociali”.
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